Approfittando di un paio di giorni liberi, decido di spostarmi oltre il mio solito campo d'azione compreso fra le Dolomiti Ampezzane e le Alpi Giulie.
Il gruppo del Latemar, con i suoi singolari campanili, mi aveva profondamente incuriosito durante la lettura di un articolo su una rivista di montagna.
Mi informo, dunque, su quali sono le principali cime del gruppo, sulle vie normali, sugli itinerari escursionistici e sulle vie ferrate.
Vengo rapito in particolare da una fotografia della Cima Diamantidi, che assomiglia ad una rampa di lancio verso la Luna.
Lasciandomi andare alla fantasia, mi immagino lassù minuscolo come un granello di sabbia, ed in breve la decisione è presa. Non posso lasciarmi sfuggire il Latemar.
Il primo giorno arrivo ad Obereggen in tarda mattinata e lascio la macchina sotto gli impanti di risalita. La seggiovia mi porta sull'altopiano dell'Oberholz e da qui inizio a percorrere il sentiero 18 in mezzo alla colorita folla che mi aspettavo di trovare: turisti in jeans e scarpe da ginnastica, sky runner che si allenano come se fossero in palestra, donne che si lamentano, bambini che piangono, ragazzi che corrono e anziani che arrancano.
Salendo, mi addentro fra massi e torrioni fino ad arrivare all'imbocco di un facile camino.
Aiutandomi con le mani, sbuco sulla Forcella dei Camosci e, per un momento, rimango senza fiato davanti alla bellezza di un paesaggio del genere.
E' qui che mi confronto sul campo per la prima volta con il Cimon del Latemar, punta di roccia con pochi vicini rivali che si alza dal centro della catena per infilzare il cielo.
Penso a quando, circa tre mesi fa, mi sono trovato in seria difficoltà per salire sulla vetta di una montagna che con il Latemar non c'entra niente. Anche quella volta, come ora, mi trovavo da solo ad affrontare una salita molto ripida, su terreno detritico e seguendo un'esigua traccia invece che un sentiero "ufficiale". Questo è il nesso. Penso che potrei scivolare e allora non mi fermerebbe neanche la Madonna. Madonna che peraltro, secondo le relazioni, se ne sta beata sulla cima in forma di statua di bronzo. Penso che potrei non farcela, ma questo lo saprò per certo soltanto domani quando sarò là.
Poi l'appetito prende il posto della paura, ed essendo ormai ora di pranzo scendo lungo il sentiero 516b fino al bivacco Sieff per rifocillarmi. Il bivacco si trova trecento metri più sotto, proprio come me l'ha descritto nei giorni scorsi un escursionista, su di uno splendido terrazzo panoramico che guarda verso le Pale di San Martino.
Si vedono la Fradusta con il suo piccolo ghiacciaio, il mitico Cimon della Pala e la Vezzana.
Mi trovavo su quest'ultima solo due settimane prima, in compagnia di Sherpa e Stic. Adesso mi trovo qui.
Mi vengono in mente le parole di un tale: "Più vai avanti e più fai fatica, ma il panorama è sempre più ampio".
A quest'ora è troppo tardi per sfidare il Cimone e troppo presto per andare in rifugio, così me ne resto per un imprecisabile lasso di tempo nei pressi del bivacco, immerso nella tranquillità gentilmente offerta dalle terre in cui mi trovo e nell'incredibile silenzio, spezzato di tanto in tanto dalle scariche di sassi che scendono dalla vicina Cima Tolomei.
Ad un certo punto le nubi coprono il sole e un aria più fredda mi suggerisce di rimettermi in cammino.
Sotto la Cima di Valsorda incrocio il sentiero 516 e inizio a salire verso il rifugio Torre di Pisa, notando un pinnacolo leggermente inclinato che, molto più tardi, scoprirò essere la Torre da cui prende il nome il rifugio.
Poco più avanti è possibile andare a bussare alla Porta del Latemar. Volendo entrare, è aperta...
Giunto in rifugio, ripongo in camerata lo zaino, mi tolgo gli scarponi, mi dò una rinfrescata e vado a gustarmi una buona birra aspettando l'imbrunire. La Cima Valbona, di poco più sotto, mi saluta.
A cena qualche gruppo di escursionisti ed una comitiva di adolescenti di un campo estivo riempiono la sala del rifugio. Con un velo di imbarazzo mi siedo in una tavolata mista dove ci sono una coppia dallo spiccato accento tedesco ed un uomo con suo figlio. La mia conoscenza dell'inglese lascia a desiderare, per non parlare del tedesco. Mi limito quindi a salure la coppia con rispetto, ma senza perdermi in troppe chiacchiere. Inizio a parlare con l'uomo, un veronese molto simapatico, e con suo figlio, un ragazzino di dieci anni estremamente sveglio e loquace. Sebbene non ci voglia tanto, si rivela più esperto di me in fatto di montagna. Mi descrive la ferrata sulla Roda di Vael nel vicino Catinaccio meglio di un libro stampato e poi mi mette alle strette con una serie di quesiti su quale sia stata la mia escursione più bella, quale quella più difficile, ecc. Mi insegna dei giochi di prestigio ed io ricambio con indovinelli e rompicapo con cui si è soliti passare il tempo volentieri a quell'età. Dopo cena, prima di salutarci, mi chiede se per caso ho avvistato dei camosci quando sono arrivato sull'omonima forcella. Sorrido e gli dico che di camosci non ne ho visti e che credo sia difficile avvistarne a causa delle numerose persone come noi che affollano il luogo. Da buon friulano non posso rifiutare una grappa gentilmente offerta dal padre del bambino, per poi andare a coricarmi.
Alle 5.30 la suoneria del telefono sveglia contento me, ma non altrettanto contente le altre persone presenti nel dormitorio. Faccio un'abbondante colazione e all'alba mi incammino, dopo aver salutato e ringraziato dell'ospitalità i gestori del rifugio. L'alba sul Latemar sembra la naturale continuazione dei sogni da cui mi sono risvegliato poco prima. Continuo a sognare, ora ad occhi aperti, e raggiungo in breve la Forcella dei Campanili.
Qui le prime luci del giorno provano a riscaldare le fredde e appuntine rocce, mentre una coltre di nubi tiene al fresco il Catinaccio.
Rimontato il ripido sentiero di fianco, dove perfide ghiaie si alternano a facili roccette, giungo all'attacco della via ferrata dei campanili.
La via si articola in una serie di traversi, interrotti da brevi salti rocciosi assicurati con il cavo e da lunghi e frequenti tratti di cenge non attrezzate e talvolta esposte.
La parte più bella, secondo me, è stata nello scoprire tutte queste naturali feritoie che si aprono in modo impressionante fra una parete e l'altra.
Come da relazioni, superate le Torri Occidentali, rivolgo in alto lo sguardo per cercare la traccia che porta sulla Cima Diamantidi.
Vedo due grossi ometti e mi incammino cercando la linea più logica possibile. Guardando a valle, scorgo in lontananza due camosci. Mi torna in mente il bambino di ieri sera. Vorrei dirgli che i camosci ci sono, che sono qui. Sorrido e sposto lo sguardo a monte. Verso la cima qualche bollo sbiadito mi aiuta a non perdermi, dopodichè arrivo contento in vetta.
Dicono che in cima ci sia un panorama che spazia dal Pelmo fino al'Ortles e che si riescano a vedere perfino i monti del Garda come il Baldo e l'Altissimo di Nago. Dicono...Perchè sono avvolto dalle nubi e vedo solo lei, la Madonna di bronzo.
Soddisfatto dell'ascesa, ora è il turno della discesa. Dall'alto ho un quadro più definito del percorso da seguire per ricollegarmi alla via dei campanili e noto, sulla sinistra, una traccia che scende dritta lungo un ghiaione. Mi ci tuffo e, sprofondando di tre metri ad ogni passo, mi risparmio un po' di tempo e di fatica.
Poco dopo riprendono i cavi e mi si presenta quello che forse è il tratto più difficile della via ferrata, rappresentato da una parete di alcuni metri leggermente strapiombante. Non è un punto dove sia richiesta molta "tecnica", dato che le staffe ben ravvicinate offrono solidi appoggi, ma piuttosto forza nella braccia e poca paura del vuoto.
Dopo un'ultima appoggiata parete da scendere, si guadagna la Forcella Grande, con il bivacco Rigatti che sembra un fungo cresciuto all'ombra dello Schenon del Latemar.
Quest'ultima, detta anche Cima Latemar, è una bellissima montagna e offre un panorama unico.
Non era nei miei programmi, ma mi dispiaceva lasciarmela alle spalle come niente fosse e, così, ho seguito i bolli fino alla croce di vetta.
Le relazioni la descrivono non a torto come un'ascesa più tecnica rispetto a quella del Cimone. Non mancano, infatti, dei tratti di I e I+. Uno in particolare presenta una certa esposizione e cadere in quel punto, per usare un'espressione escursionistica, sarebbe poco salutare.
Dallo Schenon la direzione da seguire è sempre verso est, attraverso il Col Cornon fino ad arrivare alla Forcella Piccola. Non mancano, anche in questa parte di percorso salti rocciosi da disarrampicare e traversi esposti per oltrepassare canali scivolosi.
Dalla forcella scendo sul versante nord sempre lungo il sentiero 18. A valle, prima del termine, mi concedo una scappata attraverso il Labirinto del Latemar, un intricato percorso ad ostacoli fra i massi prodotto un paio di secoli fa da una grossa frana.
Infine, come ultima tappa, mi aspetta il Lago di Carezza, un incantevole lago alpino sul quale si specchia, orgogliosa di altrettanta bellezza, la frastagliata parete nord del protagonista di questa storia.
Dopo aver riposto con cura nello zaino un'altra avventura, un paio di autobus mi accompagnano ad Obereggen. Finisce qui l'escursione, anche se preferisco definirlo un viaggio. Un viaggio così intenso che la sera ad occhi chiusi, prima di addormentarmi, riesco a sentire ancora il rumore dei sassi sotto gli scarponi mentre cammino da solo all'alba, ed in sogno mi pare di volare. Libero come una rondine, fra le alte terre del Latemar.